Il suo “biglietto da visita” è dentro un numero: “In carriera ho venduto oltre 80 milioni di dischi. E nel mondo. Nessun altro manager italiano è arrivato a tanto”. Per raggiungere questo traguardo, Michele Torpedine ha scoperto, lanciato e seguito buona parte della hit parade made in Italy, da Giorgia a Gino Paoli, da Luca Carboni a Biagio Antonacci, e soprattutto Zucchero, con il quale non si è lasciato benissimo: “Racconta un sacco di frottole, e soprattutto non mi riconosce i giusti meriti: sono stato io a crearlo”.
Nato a Minervino, Puglia, anno di grazia 1952, da ragazzo si stabilisce con la famiglia a Bologna (“ed eravamo poverissimi. Non poveri, proprio ‘isssimi’”), fino a quando anticipa i comuni canoni della ribellione, e a 15 anni è già il batterista di una band, a 16 su un palco prima di Sua maestà Jimi Hendrix, mentre l’illuminazione decisiva arriva una sera a cena con Gino Paoli.
80 milioni.
Cinquanta e passa solo con Andrea Bocelli, un successo enorme, e il punto fondamentale è uno: in carriera non mi sono fermato a un solo artista.
Ha spaziato.
Quasi tutti i miei colleghi hanno impostato la carriera su un nome solo: Roberto Galanti da quarant’anni con Eros Ramazzotti, Guido Elmi tutto su Vasco Rossi, Angelo Carrara con Ligabue, mentre io ho inventato su sette, otto nomi forti.
Con le sue “scoperte” non si è sempre lasciato benissimo…
Infatti ho pubblicato una biografia per ricostruire la storia, mi ero rotto le palle di ascoltare e leggere una serie imbarazzante di bugie o negligenze: con Zucchero all’improvviso non son più esistito.
Nell’ombra.
Fino a quando si vendevano i cd, allora i ruoli erano ben definiti e scritti, ma da quando la musica viaggia solo in Rete, allora chi sta nell’ombra, nell’ombra muore, e i vari artisti all’improvviso fingono la memoria corta.
Ingrati.
Prenda Sanremo degli ultimi vent’anni, da quel palco sono realmente usciti solo tre nomi di livello internazionale: Bocelli, Giorgia e il Volo. Tutti miei.
C’è anche Laura Pausini.
Lei solo in certi paesi, non nel mondo; comunque ho lanciato quei tre, eppure nelle arie commissioni non mi chiamano mai, preferiscono coinvolgere un mezzo cuoco (si riferisce a Bastianich).
Non la coinvolgono neanche nei talent.
Lì vincono le logiche televisive, non quelle oggettive, preferiscono puntare su un risultato gestibile.
Sempre.
Anche quest’anno per Sanremo si parla più delle vallette al fianco di Amadeus che della qualità dei concorrenti, anche a costo di riciclare artisti senza mercato come Al Bano.
Meglio con Baglioni.
Infatti non ho capito tutte le polemiche contro Claudio, uno dei pochi con un curriculum, mica come Zucchero.
È avvelenato con lui…
Non capisco il motivo delle sue parole, delle sue mancate verità.
Da quando e perché vi siete distanziati con Zucchero?
A un certo punto mi ha accusato di non essere all’altezza del mercato estero, per sua sfortuna poi ho lavorato con Bocelli e Il Volo, e certe tesi bislacche si sono sgonfiate, e ho dimostrato che il problema era dell’artista, non del management.
Cioè?
Gli americani non volevano e non vogliono ascoltare la brutta copia di Joe Cocker, meglio un made in Italy doc.
Però vanta duetti internazionali importanti.
Per forza, sono sodalizi creati da me e soprattuto pagati.
Zucchero sostiene che Miles Davis ha apprezzato la sua voce.
Macché! Non è vero, come non è reale la partnership con Pavarotti: la prima volta andai insieme a un paio di dirigenti della PolyGram da Luciano a Philadelphia e con l’incisione di Miserere, e ci disse di “no”. Subito dopo chiamai Zucchero per rassicurarlo: “non ti preoccupare, trovo la soluzione”.
Qual è stata?
Dopo quindici giorni mi contattano: “il maestro ti deve parlare”. Bene. Vado a Modena e Pavarotti mi racconta di un concorso ippico, e di uno spettacolo alla fine della gara. Accetto. Ma pongo una condizione: doveva cantare Miserere, e da lì è nato il Pavarotti and Friends.
Zucchero ha fama di caratteraccio.
In realtà è più egoista, pretende di apparire sempre e in qualunque occasione: per questo abbiamo perso la causa con gli eredi di Piero Ciampi.
In che occasione?
Quando in un brano inserì la frase: “Il mare impetuoso al tramonto, salì sulla luna e dietro una tendina di stelle… se la chiavò” (è anche il titolo della canzone). Ecco, bastava citare Ciampi, perché è una sua poesia, e tutto si sarebbe risolto, invece lui glissò.
Risultato?
Pagati fior di quattrini. E pensare che Piero Ciampi l’ho conosciuto benissimo, e con Paoli abbiamo inciso un album dedicato a lui, alla sua poetica. Album fantastico.
Ciampi genio e sregolatezza.
Lui e Léo Ferré in questo sono stati i numeri uno; a Piero le case discografiche lo avevano allontanato, non riuscivano a gestirlo, troppo imprevedibile. Poi è morto di cirrosi epatica.
Lei ha definito Paoli un “maestro”.
Perché mi ha aiutato molto: è stato il primo a darmi il ruolo di manager quando ero un batterista.
In quale contesto?
Una sera eravamo a tavola, e all’improvviso lo rendo partecipe di una riflessione: “Scusa Gino, c’è la Vanoni che fa i soldi con le tue canzoni, mentre tu guadagni il minimo e non arrivi a fine mese?”
Addirittura.
A quel tempo suonavamo nei locali per due milioni a sera.
Non poco.
Ornella, Califano, Peppino di Capri arrivavano a 25-30 milioni.
Insomma…
Prendo il coraggio e aggiungo: “Perché non organizzate una tournée insieme?”. E lui: “ Te ne vuoi occupare?”
Quel tour è diventato un trionfo, record al Sistema di Roma, e la vita è cambiata per tutti, a partire dal punto di vista economico.
Fondamentale.
Vengo da una famiglia più che modesta, insomma messa male.
La Vanoni ha un animo schietto…
È di una simpatia unica, completamente fuori di testa, e con l’età si sente sempre più libera; io Ornella la amo da sempre, perché non ho mai apprezzato Mina: al suo urlare, ho sempre preferito chi alla tecnica associa il cuore, però mi è piaciuto l’ultimo album inciso con Fossati, ci sono dei pezzi da perdere la testa.